Come dare un feedback efficace
Spesso la nostra capacità di dare o non dare carezze, o meglio feedback positivi, dipende dalla nostra genitorialità e dalla familiarità atavica a darle e riceverle. Posso essere stato abituato a sminuirle o a filtrarle: ad esempio "nessuno dà nulla se non vuole ottenere qualcosa in cambio". Qualcuno potrebbe aver elaborato che le carezze negative – il famoso bastone - è più efficace di quelle positive, oppure semplicemente avrebbe sempre voluto riceverle, ma senza successo: "ma se non le danno a me, perché io devo darle ai collaboratori?"
Ricordiamo anche che le carezze rappresentano il nostro bisogno di riconoscimento: fin da piccoli impariamo a nostre spese a capire cosa ci porta carezze da parte dei genitori; le cosiddette carezze condizionate o non spontanee. Così, se da bambino mi rendo conto che mettendo in ordine i giochi a fine giornata senza che mamma me lo ricordi, lei mi dà una carezza, da adulto sarò portato, a fine giornata, a sistemare la scrivania e fare un report dettagliato delle mansioni svolte al mio manager in modo da ottenere una carezza similare.
O ancora, se da piccolo mi viene promessa una carezza, più o meno materiale, per un bel voto, da adulto sarò più propenso di altri ad accettare mansioni che includano una sfida rivolta ad un premio finale. Una carezza condizionata, quindi, mi segnala che il mio comportamento fa piacere o non fa piacere ad una persona e questo ovviamente influenza i miei comportamenti.
Vediamo quindi quali sono gli elementi di un feedback che possono evocare nei nostri collaboratori il ricordo dei messaggi ricevuti nell'infanzia:
- Freddezza e indifferenza. Evocano il piacere e l'interesse non ricevuti dal bambino nei primi anni di vita. Il percepito è un senso di inadeguatezza e disvalore e ben presto il collaboratore crederà di non essere ben accettato dal proprio manager, diminuirà il senso di fiducia in sé stesso e mostrerà segni di pessimismo. Si sentirà privo di valore ai vostri occhi e necessiterà di un confronto continuo per essere sicuro di "esistere" per voi.
Spesso, inoltre, il non mostrare le proprie emozioni induce nel collaboratore il senso di "non fidarti/non mi fido". - Paragoni critici o svalutativi, palesi o silenziosi, con altri collaboratori. Ricordano possibili paragoni con fratelli o amichetti sia da un punto di vista fisico che intellettuale. Anche in questo caso abbiamo una forte diminuzione dell'autostima, paura di deludere e di non essere all'altezza. Il percepito è la non accettazione per quello che si è, uno sforzo continuo di apparire diversi per essere accettati e apprezzati, con il rischio di alimentare una competizione malsana.
- Non dare autonomia ("Ti proteggo io"). All'inizio di un nuovo rapporto di lavoro o all'assunzione di un nuovo ruolo, è normale che il manager tenda ad aiutare e proteggere il collaboratore, così come fa il genitore con il bambino piccolo. E' altrettanto normale però lasciarlo andare per fargli assumere le sue responsabilità e renderlo autonomo: a volta capita, come fanno alcuni genitori che vorrebbero che il loro bimbo rimanesse sempre piccolo, che il manager tenda a sostituirsi al collaboratore e a proteggerlo nel tempo, limitandogli l'autonomia, impedendogli di crescere e infondendo quindi un senso di frustrazione. Il collaboratore sarà quindi portato ad avere sempre bisogno di linee guida, di regole e consigli.
Un modo per dimostrarlo – e quindi richiedere al proprio manager la "protezione"- è anche attraverso la malattia: se da bambino ho compreso che la malattia porta carezze, allora da adulto userò la stessa strategia ogniqualvolta le cose vanno male nelle relazioni con manager o colleghi o ancor più in generale sul lavoro. - Non ce la farai. Rispecchia il messaggio che può dare un genitore geloso per i successi del figlio e che ha paura di perdere la figura di modello per lui. Allo stesso modo, un manager che vede crescere il proprio collaboratore, potrebbe aver paura di perdere il suo status e inviargli quindi appositamente un messaggio negativo sottolineando errori e non complimentandosi per i successi, creando così frustrazione. Inoltre, il collaboratore che inconsciamente rivive il passato, potrebbe a sua volta autosabotarsi ovvero lavorare bene, ma non raggiungere l'obiettivo per non entrare in competizione con il proprio manager.
- Faccio io, è troppo rischioso. Anche questa può essere vista come una forma di protezione che in realtà blocca il desiderio di contributo del collaboratore e lo induce a ritrarsi difronte alle scelte e all'assunzione di responsabilità. Da qui si sviluppa la perenne indecisione.
Lo stesso concetto vale per chi, da piccolo, non si è sentito messo a confronto con le proprie responsabilità e di conseguenza non si è sentito "importante" per qualcosa o qualcuno: da adulto sarà veramente difficile per lui assumere dei ruoli di leadership o comunque tenderà a non voler fare carriera. - Ipervalutazione. Anche un feedback smisuratamente positivo o perpetrato nel tempo a discapito dei colleghi può essere negativo. Il collaboratore infatti può sviluppare troppa autostima e indebolire il suo senso critico, rafforzando il valore della sua immagine già esaltato dai genitori. Il rischio è l'isolamento dal resto del team, presunzione e aggressività e la conseguente difficoltà di gestione della risorsa.
- Non sei pagato per pensare. E' un messaggio che sminuisce e in qualche modo ridicolizza i tentativi di problem solving: un po' come quando si è piccoli e i genitori non prendono nemmeno in considerazione i nostri tentativi di trovare una soluzione e anzi, rimarcano gli errori fatti. Il risultato è un comportamento confusionario e ansioso che tende a bloccarsi davanti ai problemi invece di risolverli, in attesa di qualcuno che pensi per lui.
Per questo è importante che il feedback sia basato sui fatti e non sulle opinioni in modo da separare la persona a cui la critica è rivolta dal suo comportamento: se vogliamo evitare ancoraggi genitoriali, il feedback al collaboratore deve essere rivolto a ciò che egli fa, e non a ciò che egli è..